ISPI

 • Tre giorni fa, l’Italia ha consegnato a Pechino la nota in cui dichiara che non rinnoverà il memorandum d’intesa (MoU) firmato nel marzo 2019, lasciandolo dunque arrivare a naturale scadenza a marzo 2024. • Firmando il MoU Italia-Cina, cinque anni fa, l’Italia è stata sia una “prima assoluta”, sia una “ritardataria”. È stata infatti il primo e unico paese del G7 a siglare un accordo d’intesa con Pechino, ma in quel momento era anche il 121° paese ad averne stipulato uno (arriveranno a 148 nel 2023). • Sul piano della bilancia commerciale e degli investimenti, il MoU non ha portato i benefici sperati. Anzi, nel 2022 il deficit commerciale dell’Italia verso la Cina ha fatto segnare il record di sempre (-47 miliardi di dollari), mentre gli investimenti della Cina in Italia si sono fermati ben prima che Roma cominciasse a diffidarne e a “stopparli” attivamente. • Anche sul fronte delle relazioni e degli scambi culturali, il MoU non ha avuto conseguenze positive. Effetti ben maggiori, ma negativi, si sono visti con la pandemia, che ha fatto crollare le collaborazioni tra le università italiane e quelle cinesi. Con la fine delle misure restrittive, queste collaborazioni non hanno conosciuto alcuna ripresa. • A prescindere dai risultati, era difficile immaginare un esito diverso dall’uscita dell’Italia dal MoU. I rapporti tra Cina e UE, così come quelli tra Pechino e il mondo, oggi sono molto diversi rispetto al 2019. L’invasione russa dell’Ucraina, in particolare, ha messo in luce tutti i rischi strategici di dipendere in misura eccessiva da un paese così grande e dai valori non allineati con quelli occidentali.Per Pechino, la firma del memorandum of understanding (MoU) con l’Italia nel 2019 si inscriveva in una strategia iniziata con l’avvento al potere di Xi Jinping. È infatti dal 2013, con l’insediamento di Xi alla presidenza, che vengono firmato i primi MoU: tutti nel contesto dell’ambizioso progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative, conosciuta anche come “Nuova via della seta”. I MoU sono accordi non vincolanti che delineano intese e obiettivi di cooperazione tra la Cina e i vari paesi coinvolti. I primi due accordi “europei” di questo genere, stipulati nello stesso anno, coinvolgono la Bielorussia e la Moldavia, paesi al di fuori della sfera d’influenza dell’Unione Europea. La svolta vera e propria arriva però nel 2015, con il coinvolgimento di nazioni dell’Europa centro-orientale tra cui Polonia, Ungheria e Romania. L’Italia, invece, stipula il suo MoU da “ritardataria”: nel marzo 2019, quando già 121 paesi avevano sottoscritto il MoU con la Cina sui 148 che lo hanno fatto a oggi. La firma italiana avviene in un periodo caratterizzato dall’adesione di altri paesi dell’Ue “meridionale”: la Grecia nell’agosto 2018, il Portogallo nel dicembre 2018 e Cipro nell’aprile 2019. Ma proprio il 2019 segna la fine dell’impulso propulsivo generato dalle numerose firme di memorandum: i paesi disposti a stringere accordi di questo tipo con la Cina si riducono notevolmente. L’Italia, inoltre, sorprese Stati Uniti e UE diventando il primo paese del G7 a firmare un MoU con Pechino. Con la scadenza del memorandum d’intesa quinquennale a marzo 2024, l’Italia sembra pronta a ritirarsi: ma quali effetti ha avuto la firma del MoU sui rapporti tra Italia e Cina in questi cinque anni?Tra le principali ragioni per la stipula del MoU con la Cina, nel 2019 il governo italiano aveva citato l’importanza di potenziare gli scambi commerciali, nell’ottica di un reciproco beneficio. In effetti tra il 2019 e oggi l’interscambio tra Italia e Cina è cresciuto da 50 a 84 miliardi di dollari. Tuttavia, il vantaggio risulta praticamente unilaterale, a favore di Pechino. Mentre le esportazioni italiane nel quinquennio sono cresciute di 4 miliardi di dollari (da 14,5 a 18,6), quelle cinesi sono quasi raddoppiate, passando da 35 a 66 miliardi di dollari. Questa tendenza solleva interrogativi sulla sostenibilità e l’equità della partnership. La sfida per il governo italiano ora è bilanciare questa dinamica per garantire una relazione economica più eque e sostenibili nel lungo termine. Il governo italiano auspicava, inoltre, che la firma del memorandum d’intesa tornasse a stimolare gli investimenti cinesi nel nostro paese. Tuttavia, quasi cinque anni dopo, non si è registrato alcun risultato apprezzabile. Anzi, secondo i dati dell’Heritage Foundation, il picco di investimenti diretti esteri cinesi in Italia è avvenuto nel 2015, diversi anni prima della firma. Contrariamente alle aspettative, dopo la firma del MoU gli investimenti non solo non hanno registrato un aumento, ma hanno addirittura cominciato a rallentare. È interessante notare che paesi come la Francia e la Germania, che non hanno mai aderito alla Belt and Road Initiative, abbiano visto lo stock di investimenti cinesi nel paese restare più elevato rispetto all’Italia. È anche vero che negli ultimi anni il clima nei confronti degli investimenti cinesi in UE si è notevolmente raffreddato. L’Italia, come altri paesi europei, ha potenziato il meccanismo di screening degli investimenti esteri in entrata: una misura finalizzata a regolare e proteggere settori strategici e di interesse nazionale come difesa, sicurezza, energia, trasporti, telecomunicazioni e tecnologia. Durante il mandato di Mario Draghi, il governo ha esercitato il suo potere di veto in cinque casi, tutti legati alla Cina, in settori come la produzione di droni (Alpi Aviation), i semiconduttori (Applied Material Italia e Lpe), le sementi (Syngenta) e la robotica (Robox).Il memorandum sottolineava chiaramente anche l’obiettivo di potenziare gli scambi culturali tra Italia e Cina, mettendo l’accento sulla crescita della rete di città gemellate e sull’aumento delle collaborazioni tramite un forum culturale bilaterale. La collaborazione si estendeva anche agli scambi tra università e giovani, con l’obiettivo di arricchire reciprocamente le prospettive culturali e promuovere una comprensione interculturale più profonda. Nonostante le speranze iniziali, però, i dati rivelano un netto calo nelle collaborazioni universitarie tra le due parti. Questa tendenza è stata inevitabilmente accentuata dalla situazione pandemica a partire dal 2020 e dalle successive contromisure adottate da Pechino. Malgrado gli sforzi previsti nel 2019 non si osserva alcuna ripresa in questo tipo di scambi, nemmeno dopo l’eliminazione di tutte le misure restrittive causate dalla pandemia di COVID-19 nel 2022. Il motivo che ha spinto l’Italia a rivalutare la sua partnership strategica con la Cina va oltre il presente, proiettandosi verso il futuro. Certo, per Roma è stato inevitabile prendere atto dell’approfondimento del deficit commerciale – ma la latitanza degli investimenti cinesi in Italia e il crollo delle collaborazioni universitarie hanno cause più profonde. Come abbiamo visto, è stato proprio il governo Draghi a bloccare quattro partecipazioni o acquisizioni cinesi nell’ultimo periodo. Il motivo è che non solo l’Italia, ma l’intera Europa, sta oggi riconsiderando sotto il profilo della dipendenza strategica l’opportunità di collaborare con Pechino. Questo ripensamento è motivato, tra le altre cose, dal fatto che la Cina detiene una quota dominante nella produzione delle tecnologie cruciali per la transizione verde. In molti casi la dominanza cinese sui settori cruciali per la transizione supera persino il 45%, che era la quota di mercato che la Russia deteneva nelle esportazioni di gas naturale verso l’UE prima dell’invasione dell’Ucraina. E si tratta di un predominio che non tocca i soli settori industriali, ma anche quelli estrattivi, in particolare per ciò che riguarda le materie prime critiche e strategiche. Per questo a marzo 2023 l’UE ha proposto il Critical Raw Materials Act e il Net Zero Industry Act. E, anche per questo, appariva da tempo inevitabile che l’Italia non rinnovasse il MoU siglato nel 2019. A cura di:Matteo Villa, Head, ISPI DataLab e Filippo Fasulo, Co-Head, Osservatorio Geoeconomia ISPIISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

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