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La tregua tra Israele e Hamas estesa per altre 48 ore, ma persistono le incognite sul ‘dopo’. Intanto il sud del mondo condanna i doppi standard occidentali

Le pressioni, interne ed esterne, hanno avuto la meglio: il cessate il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas, in vigore da venerdì 24 novembre, è stato prorogato per altri due giorni. Come previsto dagli accordi faticosamente mediati da Egitto e Qatar, con il sostegno degli Stati Uniti, l’estensione prevede il rilascio di 10 ostaggi israeliani detenuti da Hamas e 30 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Nei giorni scorsi, la liberazione di 39 ostaggi israeliani e 117 detenuti palestinesi, oltre a 24 ostaggi per lo più thailandesi liberati al di fuori dell’accordo, si era svolta secondo le previsioni, consentendo anche l’ingresso e la distribuzione di aiuti alla popolazione stremata della Striscia. Ma a rivelarsi decisivo per la prosecuzione dell’intesa da parte di Israele sono state le pressioni dei familiari degli ostaggi che vedono nel cessate il fuoco l’unica possibilità di riabbracciare i propri cari tuttora prigionieri. Allo stato attuale infatti, nella Striscia si trovano ancora 180 ostaggi, alcuni dei quali – afferma Hamas – non sarebbero nelle mani del gruppo ma di altre piccole formazioni armate come la Jihad Islamica, il che richiederebbe più tempo per localizzarli.

Strategie opposte?

L’estensione della tregua, sottoscritta sotto l’egida di Egitto e Qatar, prevede 48 ore di sospensione delle ostilità e la liberazione da parte di Hamas di 20 ostaggi. In cambio, Israele si impegna alla scarcerazione di 3 palestinesi per ogni israeliano liberato. La prosecuzione è nell’interesse del gruppo armato palestinese, per riorganizzarsi e ricevere rifornimenti dopo le perdite subite, mentre tiene nelle sue mani i soldati israeliani catturati il 7 ottobre. I militari infatti, saranno oggetto di una trattativa separata, e saranno probabilmente rilasciati ad un ‘prezzo’ più elevato. “Siamo pronti a negoziare sui soldati dell’occupazione catturati, ma questo dossier non è stato ancora aperto” ha detto un esponente di Hamas all’emittente Al Araby, e ha aggiunto: “Questi soldati hanno una situazione diversa e Netanyahu lo sa”. Al contrario, il governo israeliano è perlopiù contrario al cessate il fuoco che – ha ribadito in più di un’occasione – non sancirà la fine delle ostilità. Il 26 novembre il premier Benjamin Netanyahu – il cui futuro politico è quanto mai incerto dopo l’attacco del 7 ottobre – lo ha ribadito visitando le truppe a Gaza: i tre obiettivi della guerra sono “recuperare tutti gli ostaggi, eliminare Hamas e impedire che Gaza torni a essere una minaccia per Israele”. In queste ore la domanda che serpeggia tra gli osservatori è se la proroga di due giorni possa aprire la strada a un cessate il fuoco più lungo.

Cosa c’è dopo la tregua?

Se per la tregua temporanea sono bastati gli sforzi diplomatici dei paesi della regione, per ottenere una tregua più duratura sarà necessario l’intervento degli Stati Uniti. Da settimane ormai l’amministrazione Biden insiste sulla necessità di una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese, che il presidente americano individua nella soluzione ‘dei due stati’. Israele però ha promesso di riprendere gli attacchi contro la Striscia di Gaza una volta terminata la liberazione degli ostaggi, e Biden ha ripetutamente affermato che “Israele ha il diritto di difendersi”. Ma dietro le quinte – riferisce il New York Times – il presidente spera di protrarre il più possibile il cessate il fuoco nella speranza di trovare, infine, una via d’uscita alla crisi in atto. Non è un caso se questa settimana il segretario di Stato americano, Antony Blinken, si recherà per la terza volta in Israele e in Cisgiordania dove dovrebbe incontrare il presidente palestinese Mahmoud Abbas. In un comunicato il Dipartimento di Stato riferisce che Blinken discuterà anche della gestione della Striscia di Gaza una volta finito il conflitto, così come della necessità di istituire uno stato palestinese indipendente e prevenire l’allargamento del conflitto. Tuttavia, funzionari statunitensi non escludono che Israele prosegua la propria avanzata anche nel sud della Striscia dove hanno trovato riparo la quasi totalità dei civili in fuga dal nord dell’enclave.

Lezione di ipocrisia?

Dall’inizio del conflitto – all’indomani dell’attacco del 7 ottobre in cui Hamas ha trucidato oltre 1200 israeliani e catturato 240 ostaggi – i bombardamenti sulla Striscia di Gaza, l’enclave più densamente popolata al mondo, hanno provocato 14mila morti di cui 5500 bambini, secondo i dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza, mentre circa 1,8 milioni di palestinesi – pari all’80% della popolazione della Striscia – sono stati sfollati. La portata della distruzione, unitamente alla convinzione diffusa che radere al suolo un territorio densamente abitato non avrebbe aiutato a sradicare Hamas, ha reso sempre più difficile accettare questo conflitto agli occhi di molti paesi. Inoltre, il sostegno ‘senza se e senza ma’ a Israele da parte di Washington e Bruxelles – che più vote hanno votato contro la richiesta di un cessate il fuoco in sede Onu – hanno trasformato l’indignazione di buona parte del Sud del mondo in rabbia. Si è acuita la percezione di un “doppio standard” da parte dei principali paesi occidentali riguardo a “quelli che scelgono di chiamare crimini di guerra, la rapidità con cui la Corte penale internazionale interverrà [e] il grado di empatia dimostrato nei confronti delle vittime” osserva il South China Morning Post. Oltre ad aver eroso la già malferma fiducia nella comunità internazionale, la guerra a Gaza è stata “un’intensa lezione sull’ipocrisia occidentale – commenta in un lungo editoriale sul Guardian Nesrine Malik– Qualunque cosa accada, non sarà dimenticata”.

Il commento

di Valeria Talbot, Head Osservatorio MENA ISPI

“La tregua tra Israele e Hamas non solo ha retto ma è anche stata prolungata. Un successo per la diplomazia di Doha, in collaborazione con il Cairo e Washington, dopo settimane di lunghi e complessi negoziati. Il Qatar si conferma dunque mediatore di primo piano nelle crisi regionali grazie alla sua capacità di dialogare con tutti e di mantenere un delicato “balancing act” tra attori molto diversi. Un interlocutore affidabile per gli Stati Uniti, che nella penisola qatarina hanno installato la loro più grande base militare in Medio Oriente, ma anche per Hamas, la cui leadership politica ha qui trovato accoglienza da un decennio a questa parte. E ciò ha certamente fatto la differenza rispetto ad altri paesi che si sono proposti come mediatori in questo conflitto”.

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