Da ISPI sulla crisi in Medio Oriente

L’escalation in Medio Oriente, iniziata il 7 ottobre scorso con l’attacco di Hamas contro Israele e proseguita nelle settimane successive con l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, affonda le radici in uno specifico contesto storico e politico, ma anche geografico.

L’operazione di Hamas nei territori israeliani ha provocato la morte di più 1.400 persone, la maggior parte civili.

 Il 27 ottobre, a venti giorni esatti dall’attacco di Hamas – considerato un’organizzazione terroristica da Stati Uniti e Unione Europea – le Forze di difesa Israeliane (IDF) hanno intensificato la loro campagna di bombardamenti sulla Striscia di Gaza, per poi avviare un’incursione di terra su larga scala nell’enclave costiera palestinese. Colonne dell’esercito israeliano – comprese unità di fanteria, carri armati e del genio militare – sono penetrate nella Striscia da nord e da ovest, isolando nei giorni successivi Gaza City e il nord dell’enclave dalla zona meridionale.

Nei giorni precedenti il ministro della Difesa israeliano aveva annunciato il “blocco totale” della Striscia, vietando oltre all’elettricità anche l’ingresso di cibo e carburante e chiedendo ai civili di evacuare tutta la zona settentrionale dell’enclave costiera spostandosi verso sud.   

 La Striscia è una piccola regione costiera che ospita oltre 2 milioni di palestinesi, un dato che la rende una delle aree più densamente popolate al mondo. Situata tra Israele ed Egitto, lungo il Mar Mediterraneo, si estende su una superficie di circa 360 chilometri quadrati ed è parte integrante dei Territori palestinesi.

La Cisgiordania, invece, è una regione situata nella zona occidentale del fiume Giordano, a est di Israele, ed è abitata da quasi 3 milioni di palestinesi. Dopo la Prima guerra mondiale, la zona venne posta sotto il controllo britannico come parte del Mandato in Palestina. Nel 1947, l’ONU propose un piano di spartizione che avrebbe dato vita a due Stati, uno ebraico e uno palestinese, con la maggior parte dell’attuale Cisgiordania destinata a diventare parte della nuova Palestina.

Tuttavia, il piano di spartizione non venne accettato dagli arabi e dopo le guerre arabo-israeliane, nel 1993, gli Accordi di Oslo aprirono la strada a una parziale autonomia palestinese in alcune zone della Cisgiordania, suddividendola in aree A (sotto controllo della neonata Autorità nazionale palestinese), B (con controllo congiunto) e C (sotto il controllo israeliano).     

L’ultima escalation tra Hamas e Israele non riguarda solo la Striscia di Gaza, né i soli Territori palestinesi. Il conflitto, infatti, ha anche una dimensione regionale. L’escalation, infatti, ha interrotto un processo di normalizzazione tra Tel Aviv e diversi paesi arabi, che a partire dal 2020 avevano iniziato a instaurare relazioni diplomatiche, economiche e commerciali con Israele, rimasto isolato dal mondo arabo sin dalla sua fondazione nel 1948.

Con gli Accordi di Abramo – fortemente patrocinati dagli Stati Uniti – Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Sudan e Marocco hanno normalizzato i loro rapporti con Israele. Anche l’Arabia Saudita sembrava vicina a una decisione in tal senso, ma l’attacco del 7 ottobre ha messo in crisi, o perlomeno rallentato, il processo di normalizzazione.   

  Un’altra dinamica regionale del conflitto riguarda la possibilità, temuta da molti, che la guerra si allarghi. L’area del Medio Oriente, infatti, presenta vari “punti di attrito” tra Israele e Iran, storicamente avversari regionali, in particolare per quanto riguarda i movimenti politici e milizie filo-Teheran in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Questi attori, tra cui spicca il partito milizia libanese Hezbollah, formano quello che spesso viene definito “asse della resistenza”, che ha nell’Iran il suo punto di riferimento. Sin dalle prime ore del conflitto, come ha chiarito anche il leader del partito libanese Hassan Nasrallah, le forze di questa compagine si sono mobilitate in solidarietà con i palestinesi contro Israele.

Ciononostante, per il momento, gli scontri con Israele e con le forze statunitensi dispiegate in Medio Oriente si sono limitati a “scambi di fuoco” circoscritti, senza aprire dei veri e propri fronti di guerra ulteriori.     

Al di là delle relazioni ufficiali intessute da alcuni Stati arabi con Israele, il sostegno alla causa palestinese continua a galvanizzare l’opinione pubblica araba e del mondo arabo-islamico.

Nei paesi che hanno stabilito relazioni diplomatiche con Israele (tra cui l’Egitto nel 1979, la Giordania nel 1994) la maggioranza delle popolazioni non ha condiviso le ragioni politiche ed economiche del riavvicinamento.

Il 27 ottobre, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a favore di una proposta di tregua nella Striscia di Gaza. 

La mozione, presentata da una cordata di stati arabi e in particolare dalla Giordania, ha ottenuto 120 voti favorevoli, 14 contrari, e 45 astensioni.

Tra i no quello di Israele e quello degli Stati Uniti.

Il testo è stato appoggiato da Russia, Cina, Brasile e da gran parte dei paesi a maggioranza musulmana.

ampio è il fronte degli astenuti, che insieme a paesi come Canada, Australia e India, vede la presenza di molti stati europei come Germania, Regno Unito e Italia.

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