C.Fumagalli Wired

Quando, quasi vent’anni fa, il professor Giuseppe Gorini entra nell’ufficio di Igor Chugonov, a San Pietroburgo, si trova di fronte un uomo di bassa statura, capelli bianchi, occhiali grandi. Fuma di continuo. Sono entrambi fisici affermati ed esperti nel campo della misurazione dei neutroni. Da dietro la sua scrivania lo scienziato russo apre un cassetto e ne estrae un oggetto di circa 40 centimetri, racchiuso in un bussolotto. È, tecnicamente, un filtro a idruro di litio, con ogni probabilità un avanzo della ricerca atomica sovietica. Un materiale che può servire a costruire una bomba H (all’idrogeno). Oppure, a misurare i raggi gamma nelle reazioni di fusione nucleare.

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Fuma di continuo. Sono entrambi fisici affermati ed esperti nel campo della misurazione dei neutroni. Da dietro la sua scrivania lo scienziato russo apre un cassetto e ne estrae un oggetto di circa 40 centimetri, racchiuso in un bussolotto. È, tecnicamente, un filtro a idruro di litio, con ogni probabilità un avanzo della ricerca atomica sovietica. Un materiale che può servire a costruire una bomba H (all’idrogeno). Oppure, a misurare i raggi gamma nelle reazioni di fusione nucleare.PUBBLICITÀÈ per questo secondo scopo che Giuseppe Gorini lo vuole acquistare, per conto del progetto di ricerca a cui sta lavorando. È il primo passo che porterà il team di ricercatori dell’università di Milano-Bicocca, insieme all’Istituto per la scienza e la tecnologia dei plasmi del Cnr, a sviluppare un nuovo metodo per misurare la potenza emessa dai processi di fusione nucleare controllata. Ora gli scienziati milanesi sono in grado di osservare la “luce dei nuclei”, cioè la radiazione che nasce dal cuore del reattore. Un passo fondamentale nel lungo percorso che dovrebbe portarci al traguardo della prima centrale elettrica dimostrativa a fusione nucleare dopo il 2050. Prima dimostrando che dalla fusione nucleare si può ottenere più energia rispetto a quella immessa nel reattore, poi costruendo un prototipo di centrale elettrica a fusione

Sì, perché la fusione nucleare promette davvero di cambiare le regole del gioco nel campo della sostenibilità. Una fonte di energia pulita, senza emissioni di CO2. Con un combustibile che deriva da un composto semplicissimo da reperire: l’acqua. Un processo sicuro, capace di auto-spegnersi in caso di anomalie. E senza produzione di scorie radioattive a lungo tempo di decadimento come avviene nel caso della “sorella”, e più nota, fissione nucleare.

L’energia delle stelleNei reattori delle attuali centrali a energia nucleare nel mondo, che utilizzano la tecnologia della fissione, nuclei di uranio o plutonio vengono bombardati da neutroni: si dividono in atomi più piccoli e rilasciano energia. Si potrebbe dire che, invece, il processo di fusione lavori nella maniera opposta. All’interno di un reattore, deuterio e trizio (due isotopi dell’idrogeno, cioè atomi a cui vengono sottratti o aggiunti neutroni), vengono portati a fondersi in un unico nucleo, liberando una quantità di energia quattro volte maggiore.È lo stesso processo che alimenta le stelle e fornisce energia all’universo. Ma il compito che nel Sole viene svolto dalla forza di gravità – cioè confinare la materia, che a temperature altissime tende a “scappare” in ogni direzione – nei reattori viene affidato a campi magnetici ad altissima intensità, che strizzano gli elementi fino a raggiungere circa 150 milioni di gradi. A queste temperature gli elettroni si separano dai loro nuclei, e la materia diventa un plasma – una sorta di gas di cariche elettriche, definito a volte come il “quarto stato della materia” – nel quale si possono generare le reazioni di fusione.

E non solo sulla carta: con le macchine attuali è ormai verificato, infatti, che siamo in grado di controllare il processo di fusione nucleare. Ancora però non è dimostrato che un reattore si possa mantenere attivo abbastanza a lungo da produrre più energia termica di quanta ne sia immessa nel sistema, e rendere così il tutto vantaggioso.Il viaggio verso la prima centrale funzionanteIl progetto che dovrà sperimentare una reazione di fusione stabile però esiste, ed è in costruzione a Cadarache, nel sud della Francia. Si chiama Iter, acronimo di International thermonuclear experimental reactor, ma che nell’idea dei suoi fondatori, a fine anni ’80, vuole richiamare il termine latino che indica “la via”, e quindi il percorso verso una nuova energia pulita. Un percorso, per sua natura, di lungo respiro. Che sta però vivendo un periodo di rinnovata attenzione anche grazie all’ingresso di capitali privati. Sia nell’ambito di Iter, sia in progetti paralleli, dando così il via a una corsa internazionale che promette di accelerare i tempi.Iter è oggi completo all’89%. Nel 2027 il reattore avvierà una lunga fase di test ingegneristici, mentre dopo il 2035 l’obiettivo è la produzione sperimentale di 500 MW per una durata di 10 minuti. Risultato che concluderà il lavoro di Iter e che porterà al passo successivo: la costruzione di un prototipo di centrale elettrica a fusione, che prenderà il nome di Demo.

Il tipo di risultato atteso da Iter può essere paragonato all’esperimento annunciato a dicembre 2022 dal dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, in cui, per la prima volta, usando degli enormi laser si è ottenuta dalla fusione più potenza di quanta ne è stata inviata nel bersaglio, ma solo per circa un miliardesimo di secondo. Per questo la tecnologia laser è diversa e, sostanzialmente, oggi più acerba rispetto al confinamento magnetico del reattore europeo.Di fusione nucleare, in realtà, si inizia a parlare già dagli anni ’50. È la stagione della bomba atomica, ma anche dell’eccessiva fiducia in una nuova era energetica (“Too cheap to meter”, diceva allora il presidente della commissione per l’energia atomica: così economica da non dover aver nemmeno bisogno di essere misurata). Ed è nel 1968 che il tokamak, modello di un reattore a forma di ciambella configurato per la prima volta dal futuro Nobel per la pace Andrej Sacharov, raggiunge risultati record che ne fanno la macchina utilizzata ancora oggi nelle sperimentazioni più promettenti. Iter fra tutte.Il primo ad avere, però, l’idea di un reattore compatto ad alto campo magnetico era stato un fisico italiano. Bruno Coppi. “È per colpa sua che mi occupo di fusione – dice sorridendo Giuseppe Gorini, oggi direttore del dipartimento di fisica all’università degli studi di Milano-Bicocca -. Da studente mi immaginavo al Cern a scrivere una tesi in fisica delle particelle”. Ma quando un compagno di corso lo porta a sentire una lezione di Bruno Coppi (scienziato del Mit, quell’anno eccezionalmente a Pisa) si convince: “Si trattava di fisica sperimentale, era un’attività di nicchia, e aveva un impatto sul futuro. In quel momento ho capito che avrei voluto lavorare nella fisica del plasma e della fusione”.

Misurare la potenzaDa lì inizia una carriera che lo porterà subito in Inghilterra al progetto Jet, il reattore sperimentale predecessore di Iter, tutt’oggi il più grande tokamak in funzione. “Aveva un respiro davvero europeo – racconta Gorini – ed era nuovissimo, tutto quello che facevamo era partito appena un anno prima”. Al suo gruppo, in particolare, è affidato un parametro chiave per il futuro della fusione nucleare: proporre una strumentazione capace di misurare la potenza del reattore. In altre parole, come fare a capire quanta energia viene prodotta durante la fusione nel reattore nucleare?

La ricerca di Giuseppe Gorini passa da qui. Prima con lo sviluppo dello spettrometro a neutroni Mpr (Magnetic Proton Recoil) usato per le misure sugli esperimenti al Jet nel 1997, dove venne prodotta la potenza record di 16 MW. E poi con la progettazione dello spettrometro Tofor, ottimizzato per alti tassi di conteggio e ancora oggi installato al Jet. “A sviluppare quest’ultimo strumento, nel 1991 – racconta Gorini -. Eravamo in due, io e il professore svedese Jan Källne. Elaboravamo i calcoli nella campagna di mio padre, vicino a Ravenna, mentre raccoglievamo le pesche con la mia famiglia”. Trent’anni dopo, a Milano, il gruppo di ricerca è molto più numeroso. E ha appena superato la sfida più importante: trovare un secondo metodo di misurazione, completamente nuovo e indipendente.

Misurare la potenza del reattore è un elemento fondamentale – spiega Massimo Nocente, fisico sperimentale e giovane professore all’università di Milano-Bicocca -. Non solo per la scienza, ma anche per l’ente che dovrà autorizzare l’accensione dell’impianto”.Fino a oggi, infatti, è bastato applicare agli esperimenti sui reattori il metodo ormai considerato tradizionale, basato cioè sulla misurazione dei neutroni emessi dalla reazione di fusione. “Ma nel momento in cui lavoreremo su reattori importanti, come per esempio Iter – continua Massimo Nocente – reattori, cioè, che producono abbastanza energia da alimentare una o più città, non potremo permetterci di essere approssimativi sul parametro della potenza”. Ecco che allora diventa necessario un altro metodo da affiancare al primo. Senza il quale, di accendere il reattore non se ne parla.

Qual è stata la nostra idea? Sapevamo che la fusione nucleare non emette soltanto neutroni, ma anche raggi gamma”, cioè radiazioni altamente energetiche, spiega Nocente. E approfondisce: “Abbiamo pensato che se fossimo riusciti a contarli saremmo potuti risalire alla potenza emessa dal reattore”. Operazione non semplice, anche solo nel riuscire a individuare la radiazione gamma, che durante la fusione nucleare viene prodotta una volta ogni 100mila neutroni. “È davvero come cercare un ago in un pagliaio”, continua Massimo Nocente.

Per individuare l’“ago” – con esperimenti realizzati a fine 2021 al reattore Jet nell’ambito della campagna deuterio-trizio – i fisici milanesi hanno utilizzato uno strumento che per prima cosa permette di distinguere i pochi raggi gamma dalle tantissime interazioni dei neutroni (il filtro acquistato a San Pietroburgo serve a questo scopo). Fatto ciò, un altro problema: il raggio gamma non è visibile dall’occhio umano. Attraverso un cristallo (tecnicamente, uno scintillatore inorganico) le radiazioni vengono allora convertite in luce, resa poi visibile grazie a un tubo fotomoltiplicatore: un occhio artificiale che la trasforma in un segnale elettrico amplificato. “È come guardare dentro il reattore e riconoscere il colore della luce dei nuclei – spiega Massimo Nocente – poter stabilire quanto è brillante – esattamente come il colore di una fiamma cambia a seconda della sua intensità – e da lì risalire alla potenza emessa dalla fusione”. Si chiama spettroscopia di raggi gamma ad alta energia.

Questa idea funzionava soltanto sulla carta – continua Giuseppe Gorini -. Ma a fine 2021 è stato possibile testarla nel reattore del progetto Jet durante un esperimento di fusione con deuterio e trizio. La miscela, cioè, che serve per far funzionare il reattore”. Risultato? La tecnica funziona. “È un passo importante – spiegano i due fisici – stiamo facendo le ultime verifiche e quantificazioni di dettaglio, ma di fatto abbiamo in mano una tecnica che potrà essere utilizzata in qualunque plasma con la miscela giusta per un reattore”. Che sia Iter o qualsiasi altro progetto con l’ambizione di accorciare i tempi: “In ogni caso noi saremo pronti”, spiegano.La strada sembra aperta. Nonostante ostacoli e rallentamenti abbiano, nei decenni, allungato il percorso della ricerca. “Se però guardo indietro – conclude Giuseppe Gorini – mi accorgo che il tempo non è passato invano, e che ora sappiamo molto di più rispetto a quando ero studente”. E a chi dubita di un prossimo futuro in cui davvero il problema energetico possa essere risolto dall’energia delle stelle, risponde con una frase – rimasta inedita – di Bruno Pontecorvo, allievo di Enrico Fermi ed ex “ragazzo di via Panisperna”: “Quando nel ’91 gli chiesi durante una cena la sua opinione sul futuro della fusione, mi rispose: Nessuno ha dimostrato che è impossibile. Per questo, io sono ottimista”.

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