Tratto da “Quando c’era Pasolini” (Baldini+Castoldi) di Fulvio Abbate. Appena uscito in libreria

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Nel novembre del 2013, su “La Lettura” del “Corriere della Sera”, ho avuto modo di scrivere poche parole. Di congedo. Da Pasolini. Convinto – scrivevo allora – che si tratti di una battaglia ormai persa.

Eccole: «Ho appena deciso di “abiurare” cio che ho scritto a proposito di Pasolini nel corso degli ultimi vent’anni. Nell’ordine, un romanzo del 1992, Oggi e un secolo, dove lo immaginavo mentre fa ritorno a noi, come in un seguito di Uccellacci e uccellini; e ancora, C’era una volta Pier Paolo Pasolini, del 2005, dove provavo a raccontare la “necessita” della sua voce di poeta, anzi, il bisogno della persistenza della sua tersa consapevolezza politica; e poi, infine, Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, uscito pochi mesi fa.»

Uno scritto, quest’ultimo, concepito affinché coloro che son venuti dopo potessero intuire la vitalita, la grandezza dello scandalo che animava gli anni Settanta, i piu incandescenti, l’avventura terminale pasoliniana. Lo stesso scrittore, pochi mesi prima di finire assassinato, volle abiurare, testualmente, la sua Trilogia della vita: Decameron, Canterbury e Il fiore. Riteneva che «cio che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, e divenuto suicida delusione, informe accidia».

Anch’io sento una simile delusione, e dunque prometto che quando si trattera di celebrare i cento anni della nascita, o portare l’ennesima primula all’Idroscalo di Ostia, non ci saro, ne mettero nero su bianco una parola, fosse anche di quelle necessarie a spiegare, come disse proprio Pasolini al giovane Veltroni, che «si applaudono sempre i luoghi comuni» mentre uno scrittore dovrebbe essere «una contestazione vivente».

Parole che listano a lutto l’assenza ormai conclamata di una Sinistra, di una forza d’opposizione, di uno «straccetto rosso»; acclarato il vuoto di fantasia di chi avrebbe dovuto almeno provare a dargli retta. Alla fine, non sono riuscito a scriverne ancora.

Personalmente penso che la scelta non apologetica, bensi problematica, sia l’unica necessaria per sottrarre Pasolini alle sue prefiche. Laureate e non. Trovo desolante che il poeta delle Ceneri di Gramsci sia diventato un Padre Pio dell’afasia «civile», sempre li a mettere in moto la regressione letteraria e fideistica, com’e testimoniato dai molti blog che tengono accesa la lucciola pasoliniana nell’infinito della Rete, dove la melopea-lagna non riesce a produrre pensieri se non regressivi: fra convento fortificato e fan club. Sono deluso dalle semplificazioni di quei «fascisti» che con poveri mezzi d’intelletto a loro volta rivendicano l’antimodernita dello scrittore in chiave autarchica, cosi come mi deprime ripensare, e l’ho gia raccontato, alcuni ragazzi gay in nero-Paul Smith che davanti alle foto di PPP nudo scattate alla torre di Chia da Dino Pedriali nel 1975 seppero trovare come uniche parole un «che gran figone!» Per non dire di certi ex voto pittorici del suo volto, talmente brutti da surclassare il peggiore dei generi.

Anche Enrique Irazoqui, gia Cristo nel Vangelo secondo Matteo, ha detto di sentirsi altrettanto «infastidito dal culto acritico universale di San Pier Paolo Pasolini, del Profeta Pasolini, dell’Infallibile Pasolini». Stringere la mano a Pino Pelosi, l’assassino, l’ho detto, mi ha suscitato meno disagio di tutto cio che ho appena provato a raccontare. Come in una tragica natura morta, ritrovo e provo ad elencare le povere cose che si trovano oggi al Museo Criminologico di via Giulia, a Roma, la strada della «comare secca», la morte.

Nel novembre del 2013, su “La Lettura” del “Corriere della Sera”, ho avuto modo di scrivere poche parole. Di congedo. Da Pasolini. Convinto – scrivevo allora – che si tratti di una battaglia ormai persa. Eccole: «Ho appena deciso di “abiurare” cio che ho scritto a proposito di Pasolini nel corso degli ultimi vent’anni. Nell’ordine, un romanzo del 1992, Oggi e un secolo, dove lo immaginavo mentre fa ritorno a noi, come in un seguito di Uccellacci e uccellini; e ancora, C’era una volta Pier Paolo Pasolini, del 2005, dove provavo a raccontare la “necessita” della sua voce di poeta, anzi, il bisogno della persistenza della sua tersa consapevolezza politica; e poi, infine, Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, uscito pochi mesi fa.»

Uno scritto, quest’ultimo, concepito affinché coloro che son venuti dopo potessero intuire la vitalita, la grandezza dello scandalo che animava gli anni Settanta, i piu incandescenti, l’avventura terminale pasoliniana. Lo stesso scrittore, pochi mesi prima di finire assassinato, volle abiurare, testualmente, la sua Trilogia della vita: Decameron, Canterbury e Il fiore. Riteneva che «cio che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, e divenuto suicida delusione, informe accidia».

Anch’io sento una simile delusione, e dunque prometto che quando si trattera di celebrare i cento anni della nascita, o portare l’ennesima primula all’Idroscalo di Ostia, non ci saro, ne mettero nero su bianco una parola, fosse anche di quelle necessarie a spiegare, come disse proprio Pasolini al giovane Veltroni, che «si applaudono sempre i luoghi comuni» mentre uno scrittore dovrebbe essere «una contestazione vivente».

Parole che listano a lutto l’assenza ormai conclamata di una Sinistra, di una forza d’opposizione, di uno «straccetto rosso»; acclarato il vuoto di fantasia di chi avrebbe dovuto almeno provare a dargli retta. Alla fine, non sono riuscito a scriverne ancora.

Personalmente penso che la scelta non apologetica, bensi problematica, sia l’unica necessaria per sottrarre Pasolini alle sue prefiche. Laureate e non. Trovo desolante che il poeta delle Ceneri di Gramsci sia diventato un Padre Pio dell’afasia «civile», sempre li a mettere in moto la regressione letteraria e fideistica, com’e testimoniato dai molti blog che tengono accesa la lucciola pasoliniana nell’infinito della Rete, dove la melopea-lagna non riesce a produrre pensieri se non regressivi: fra convento fortificato e fan club. Sono deluso dalle semplificazioni di quei «fascisti» che con poveri mezzi d’intelletto a loro volta rivendicano l’antimodernita dello scrittore in chiave autarchica, cosi come mi deprime ripensare, e l’ho gia raccontato, alcuni ragazzi gay in nero-Paul Smith che davanti alle foto di PPP nudo scattate alla torre di Chia da Dino Pedriali nel 1975 seppero trovare come uniche parole un «che gran figone!» Per non dire di certi ex voto pittorici del suo volto, talmente brutti da surclassare il peggiore dei generi. Anche Enrique Irazoqui, gia Cristo nel Vangelo secondo Matteo, ha detto di sentirsi altrettanto «infastidito dal culto acritico universale di San Pier Paolo Pasolini, del Profeta Pasolini, dell’Infallibile Pasolini». Stringere la mano a Pino Pelosi, l’assassino, l’ho detto, mi ha suscitato meno disagio di tutto cio che ho appena provato a raccontare. Come in una tragica natura morta, ritrovo e provo ad elencare le povere cose che si trovano oggi al Museo Criminologico di via Giulia, a Roma, la strada della «comare secca», la morte. Ritrovate nell’auto, la Giulia metallizzata di Pier Paolo Pasolini in ordine sparso: il libretto degli assegni, il libretto dell’auto, una confezione di preservativi “777” e una di “Saridon”, una carta geografica dell’Italia centrale, tre fototessere, i suoi occhiali, la tessera in marocchino verde di giornalista pubblicista, una copia dell’antologia, tascabile, del “Politecnico” di Elio Vittorini, una copia Adelphi di Sull’avvenire delle nostre scuole di Friedrich Nietzsche, un premio cittadino: una statua che mostra Nettuno con il suo tridente, infine la canottiera verde che indossava la notte della morte, la camicia a righine orizzontali, le due tavolette che servirono al suo massacro dove, con vernice rossa, si trova scritto: “Via idroscalo 93” e “Buttinelli. A”. Chissa perche, chissa come, alla fine di questo libro, pensando all’«umile Italia», mi sono ritrovato tra le mani due foto, scattate, in bianco e nero, ai baracchini delle fototessere che si trovano in strada o in prossimita delle stazioni.

due scatti in sequenza appare, c’e, vive, Peppino R., «sottoproletario della sezione Borgo Vecchio del Pci di Palermo». Chi le ha fatte giungere fin sotto il mio sguardo, cinquant’anni dopo, lo racconta, lo restituisce «cantastorie, imbianchino a tempo perso e venditore di palloncini nelle feste di paese. Il Pci degli umili e dei senza voce» Nelle foto, Peppino indossa il basco cachi del servizio mi- litare, il fregio di plastica nero della fanteria, lo indossa e cosi si mostra come vezzo, come se quel berretto, indossato come un oggetto di scena della vita trascorsa, lo restituisse alla pienezza del tempo e del mondo, forse anche del cosmo, di piu, del viaggio. Chissa in quale possibile paradiso delle molliche sociali calpestate, spazzate via dalla durezza dell’esistenza, ammesso che un paradiso esista, sia mai esistito, si possa trovare adesso Peppino. Alla fine, non resta che una parola, per lui, per tutti: compassione.Il mio libro è dedicato a Carlo Alberto Pasolini dall’Onda, padre rimosso di Pier Paolo.

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