di Al.Tallarita

L’Antropologia medica, si occupa di analizzare, le profonde connessioni simboliche, che sono alla base della malattia. Presenti nella spiegazione dell’individuo in quanto paziente. Poter valutare in tale veste la persona, aiuta l’azione terapeutica. In quanto ci si apre all’ascolto dell’altro, per capirne le motivazioni profonde, senza etichettarlo. A questo proposito Byron Good fa riferimento alle etnografie sui sistemi medici “altri”, relativa agli Zinacantechi, popolazione del Messico centrale chapas.

Ponendo a confronto il processo terapeutico concepito in Occidente al loro. La medicina occidentale, concepisce il corpo come una macchina biologica complessa, mentre per loro è un aspetto olisticamente integrato alla persona e alle relazioni sociali.

Le cure meccaniche e impersonali occidentali, i medici molto formali, sono molto diverse dall’approccio della medicina per gli Zinacantechi. Ricca di simboli e caratterizzata da un rapporto di vicinanza, con significati condivisi. La terapia occidentale, guarda il corpo meccanico, le procedure di questa popolazione, invece, considerano le relazioni sociali e gli agenti soprannaturali1.

L’efficacia terapeutica per la biomedicina è l’esito positivo della terapia. E questo si trova alla base della cultura occidentale. La base della biomedicina contemporanea, si fonda sul pensiero di Descart, che nel 1600 teorizza la divisione fra res cogitans: la realtà pensante e spirituale e res extensa: la realtà fisica e materiale; vale a dire, la distinzione: fra mente e corpo.

Il mondo contemporaneo, considera il corpo come materia, un’entità che obbedisce delle leggi disgiunte dal pensiero e della mente. E il dolore si oggettivizza, diventando sintomo, di un riflesso di un problema fisico. anziché guardare l’uomo dal punto di vista olistico come invece altri momenti storici o addirittura altre popolazioni hanno fatto e fanno. È stato il paradigma positivista a dominare le scienze fisiche e sociali negli ultimi secoli, così si sono sviluppate tecnologie ed applicazioni in ambito medico. Ma che sempre hanno limiti e carenze, poste in luce da varie scuole del pensiero, come anche dall’antropologia medica.

La medicina, concede un approccio scientifico ed empirico della malattia, come realtà oggettiva, separata dal paziente. Concezione legata alla storia dell’evoluzione del pensiero occidentale, inerente all’interpretazione del reale.

La malattia come invenzione umana. Concetto derivato dall’interpretazione, attraverso categorie culturali specifiche, di una certa condizione dell’essere. La cosa importante, è capire come le varie culture, abbiano elaborato i concetti di salute e di malattia.

La disabilità: il ruolo sociale del corpo

“Una salute migliore non dipenderà da qualche nuova norma terapeutica ma dal grado di propensione di competenza di impegnarsi nella cura di sé il recupero di questo potere dipende dal riconoscimento delle nostre attuali illusioni” (Ivan illich)

Il corpo è il primo oggetto umano, so che non è comune pensare al corpo umano come un oggetto o che si pensa solo l’accezione negativa di questo, in verità il corpo è un vero e proprio oggetto. Infatti qualsiasi azione che determina la nostra presenza nel mondo, in quanto vivi, è rappresentata da un’attività che viene trasmessa proprio dal corpo. Che noi educhiamo come primo strumento. Che conosciamo educhiamo, per esempio a camminare, a parlare, a scrivere, l’unica cosa che fa in automatico è respirare e far battere il cuore, per tutto il resto viene educato, attraverso una tecnica . Il rapporto con il corpo è particolare e determina la nostra posizione nella società a cui apparteniamo. La nostra conformazione alle leggi e alle norme sociali. E alla costruzione di quella normalità, termine che sottolineo sempre deriva da norma, per cui non assoluto, ma determinante all’interno di una società, che ne ha creato l’essenza. La norma infatti, nasce dalla società, che ha bisogno di leggi, per continuare a vivere, a riprodursi a non autodistruggersi, che lima costantemente i propri atteggiamenti, al fine di fare stare meglio gli individui che ne fanno parte. Il corpo diventa dunque, la nostra rappresentazione nello spazio, la nostra rappresentazione nella società.

E quando il corpo si ammala cosa succede?

C’è un libro molto interessante che guarda alla disabilità del corpo, da una prospettiva antropologica.

The Body Silent di Robert Murphy,

antropologo che parla della disabilità. Della sua stessa disabilità raggiunta dal suo corpo dopo una terribile malattia. Che l’ha reso tetraplegico.

Il suo corpo, si è ammalato, al culmine di una brillante carriera. Subendo una progressione verso la disabilità inesorabile. Questo è un libro originale, unico, un lavoro che parla di un esperienza personale, ma dallo sguardo di un antropologo. Che analizza tutti i livelli, perché traspone in sistema teorico, la strumentazione antropologica di tipo interazionista americano. Nonché l’osservazione, lo studio di un altro se stesso, che sta progressivamente degradando.

Della sua condizione fisica, ma anche della ricerca, proiettata verso chi diviene disabile e vede cambiare la propria accessibilità al mondo, alle cose, alle relazioni sociali. Su questo si basa l’analisi dell’autore, su un racconto dello straniamento dal mondo quotidiano, da cui si apprendono i nuovi codici, che prima erano sconosciuti. Come studiare una nuova lingua. E allora, ricorda l’antropologo, gli studi sul campo della lingua delle popolazioni Munduruku della foresta amazzonica. Per cui diventare disabile e come far entrare se stessi, in un’altra dimensione di vita.

Di un’altra società. Il mondo della disabilità è un mondo a sé, una società da scoprire, con le sue nuove norme, per cui la sua nuova normalità. Le sue nuove regole, i suoi nuovi codici e allora l’antropologo racconta di questo lungo viaggio di riflessione. Alla scoperta di un mondo, prima sconosciuto, un viaggio dentro la disabilità, che conduce a un distacco progressivo dal mondo, di cui si era fatto esperienza fino a quel momento. E così l’esperienza dell’individuo, si carica di paradigmi e diventa una rappresentazione soggettiva. Come esempio delle relazioni, sperimentate da ogni disabile nel mondo sociale. Ci sono norme proprie, il ruolo sociale del malato viene istituzionalizzato, avvenendo una sospensione dei ruoli sociali comuni. Pensando alle rielaborazioni storiche, come sostenute da Parsons, quali: professore, avvocato, medico, panettiere …si ha un ruolo di: malato, che lo dispensa dagli altri obblighi sociali, ma gli dà un obbligo: produrre sforzi per guarire . Anche la malattia ha le sue regole, in cui è difficile per esempio, accettare la perdita della libertà di scelta, perché come paziente deve affidarsi agli altri e a quelle che sono le nuove norme dell’istituzione, per la gestione della malattia. Con tutta la sua ritualità. Legata alla vita ospedaliera, alla relazione con il personale medico e con il personale di servizio negli ospedali. E lo sguardo, va anche oltre il percorso ospedaliero e arriva alle dinamiche psicologiche, legate alle sedute riabilitative, ad esempio. In questo studio, si analizza inoltre il gioco che si instaura fra terapista e disabile. Per cercare di massimizzare lo sforzo, durante il recupero- Dove il soggetto, è caricato da responsabilità, quella di attendere al miglioramento. Il contrario, sarebbe una mancanza di sforzo, o una rinuncia, la condizione del disabile. Si apre così a quattro cambiamenti: una ridotta autostima, un pensiero base del deficit fisico, una forte sensazione di impotenza di rabbia e l’acquisizione di una identità non desiderata.

L’esperienza della disabilità, aumenta progressivamente le percezioni soggettive, come la rabbia esistenziale, l’amarezza ma anche la ribellione alla propria condizione, un insieme di sentimenti di colpa e vergogna.

L’emergenza della disabilità porta una ridefinizione della collocazione sociale, cambiano qualitativamente e quantitativamente le relazioni con l’universo esterno, si cerca di negarsi dalle situazioni che possono creare ansia, tutte le frequentazioni precedenti vengono rivalutate, dopo l’evento che disabilità. Mutano le relazioni personali, si intrecciano amicizie tra gli altri disabili o con persone di livello sociale più basso. Una toccante esperienza quella raccontata dall’antropologo. La malattia lo ha portato ha intraprendere una ricerca, insieme alla Columbia University sulle condizioni di vita delle persone disabili, anticipando le analisi dei Critical Disability Studios, in quanto il suo è un lavoro sul campo, quello della propria disabilità. Chiave di accesso alle esperienza degli altri. L’autore riesce a vedere la disabilità in due luoghin quella del soggetto disabile e quella del ricercatore esterno.

Analizza la dipendenza dalla famiglia “(..)è molto più di una semplice dipendenza fisica dagli altri perché genera una sorta di relazione sociale asimmetrica che ogni comprensiva esistenziale per certi aspetti più invalidante rispetto alle Emanuele nazione fisica in sé e non è tanto uno stato del corpo quanto uno stato della mente una condizione che deforma tutti i legami sociali e continua e contamina ulteriormente l’identità di chi è dipendente la dipendenza invaded Erode le basi su cui si fonda l’associazione tra adulti a sale e mettere la prova anche alcuni Legami che ci curiamo siano resistenti (..)”.

Murphyn parla del problema della dipendenza individualen ma la sua riflessione si concentra sul ruolo della società e dei suoi sistemi nell’ostacolare i processi di autonomia del disabile.

“La finalità principale del movimento delle persone disabili non è combattere la dipendenza una portare le persone disabili a tutti gli effetti nella società in quanto individui autonomi (..) Ancora una volta gli sforzi dei disabili per diventare cittadini autonomi che lavorano erano stati scoraggiati dalle agenzie che avrebbero dovuto aiutarla a realizzare queste aspirazioni il sistema sforzi “.

Nell’analisi della loro condizione sociale, partendo dagli studi di Van Gennep, Durckheim, Mauss, Turner, usa il concetto, a lui poi molto criticato, di: Liminalità. Quella condizione di chi, sta attraversando un rito di passaggio, da una condizione sociale a un’altra. Riferendosi ai riti iniziatici, in cui dall’isolamento con istruzione dell’iniziando si passa in emergenza rituale e reincorporazione nella società e nel passaggio dalla prima condizione, a questa, c’è la liminalità. Quella sorta di situazione di “limbo sociale” in cui la vita è sospesa, non definita. E questa è la condizione delle persone disabili. “Non sono nei malati nei sani ne morti ne vivi ne fuori della società e partecipi sono esseri umani ma i loro corpi sono deformati e malfunzionanti lasciando nel dubbio la loro piena umanità(..) le persone disabili sono tutt’altro che devi alti sono il controcanto della vita quotidiana”. L’antropologia descrittiva, vede la società come l’incorporamento, non di relazioni sociali ed economiche, ma di sistemi di pensiero. Mentre altri antropologi preferiscono sottolineare, che ci sono ragioni economiche, nell’esclusione delle persone disabili (Oliver, 1990). Marty, infatti, è stato criticato da Paul Abberley, attivista disabile, citato da Oliver nei suoi studi. di presentare il disabile come l’antieroe difettato di un mito. Spostando l’attenzione, delle reali differenze fisiche e sociali che svantaggiano le persone disabili. (Abberley,1988). Nella prospettiva marxista inglese, la disabilità, è il prodotto di un rapporto sociale oppressivo determinato da un sistema economico, per cui forse, in una società non fondata sulla prevaricazione economica, verrebbero meno le condizioni dello svantaggio delle persone disabili.

A tal ragione mi preme di sottolineare, come da sempre la disabilità sia trattata come un esser meno della possibilità d’uso dello strumento corpo e per tale ragione sia stata da sempre, storicamente allontanata da ogni forma di società.

Tra sentore di presunta improduttività, se ci si ferma solo all’azione del corpo e non all’apporto che la mente, inclusi i sentimenti provati che che inducono a reazioni emotive, o entro una sfera animistica, potrebbero dare al di là del corpo. Tanto alla società, che alla sopravvivenza dell’individuo stesso. Non è solo economica la questione, ma riguarda la capacità d’azione. Quella che consente di lasciare il segno del proprio passaggio sulla terra. Attraverso la conferma della propria volontà di agire, che si materializza. E ciò viene realizzato attraverso lo strumento corpo, quale primo oggetto d’uso manipolato, attraverso al tecnica appresa. Che si rende così in grado di produrre e creare, con quella volontà di potere-agire-fare. Manifestando la propria presenza in un determinato momento sulla terraMa è comunque necessario indagare le dinamiche culturali, simboliche e psicologiche che pesano sulla vita di disabile. Una visione culturale della disabilità, centralizza la prospettiva individuale dell’esperienza, di chi vive nel quotidiano, attraverso il proprio corpo, la condizione di disabile. E tutto ciò ha a che fare con la cultura e le istituzioni. La specificità del deficit, pone al centro della riflessione, le esperienze soggettive del disabile, l’esperienza del corpo, della malattia, delle rappresentazioni, che la società costruisce attorno a questo. La sola variabile sociale, sottolinea anche Gareth Williams, non spiega la complessità della disabilità, è necessaria un’analisi più ampia, di contesti e significati, per capire l’esperienza dei processi mentali. Senza un’adeguata attenzione alle esperienze soggettive, nei contesti sociali si rende banale l’argomento. E si fa solo teoria, insignificante, per le vite delle persone. Ci sono vari modi di considerare la disabilità del corpo, anche rispetto al sapere biomedico, nella relazione con il proprio corpo, nelle relazioni dei disabili, con il mondo sociale. In una società che ha strutture specifiche, nella dimensione economica assistenziale, culturale e ideologica, dove la persona è parte di questo sistema.

Oggi l’interesse di pone nella relazione tra il corpo e l’identità. Che ha fatto si che si analizzasse l’esperienza della malattia e della disabilità, guardando al significato dell’esperienza. Basando l’attenzione sui rapporti della persona disabile, con il sociale, ma anche con se stesso e con il proprio corpo, in cui si rivela il significato ultimo della disabilità. Il lavoro di Murphy descrive l’esperienza della vulnerabilità del corpo, come luogo in cui perdita e umiliazione, sono sentite e danno testimonianza della verità della condizione umana. La sua analisi va anche al deficit, come elemento che differenzia le persone disabili dalle persone abili. Variante fondamentale che produce differenti risposte e significati da parte della persona stessa e della società. La vita così si evolve, all’interno di cambiamenti che impongono delle ristrutturazioni costanti. Che non sono pericolosi se il corpo funziona, sempre nello stesso modo, in base a una norma conosciuta. Diverse le condizioni della disabilità acquisita, perché si produce una frattura della norma, fra un prima e un dopo, da una parte un corpo, che ha perso lo statuto di norma e dall’altra il vivere.  Le coordinate spazio-temporali del quotidiano, del sociale, del lavoro, che restano all’interno della norma, con il rimando alla condizione di non funzionamento. E il confronto con il prima, in base a un raffronto con la stessa della norma. Non è possibile poter vivere la stessa norma né lo stesso contesto normativo, con il corpo di prima. In quanto adesso si ha un altro corpo, con funzioni e necessità differenti. L’incapacità di controllare il corpo è uno dei più potenti significati simbolici disabilità. (Wendell 1996) In questa condizione il problema del corpo, sta anche nella sua ingovernabilità ed estraneità. L’esperienzadi Murphy infatti, si pone tra le diverse forme di alienazione, prodotte dall’essere disabile. La natura disabile del corpo è la radicale dissociazione dal corpo vissuto come oggetto altro, una specie di esternalizzazione delle identità. Nello spazio, il corpo viene sostituito dal cervello, che cerca di afferrare il mondo e gestire l’esistenza. Dichiara l’autore.“La mia soluzione al problema è stata la radicale dissociazione del corpo una specie di esternalizzazione dell’identità forse uno dei motivi del successo di questo trattamento ,che non sono mai stato troppo orgoglioso del mio corpo, i miei pensieri e il senso di essere vivo, sono stati riportati al mio cervello, dove adesso risiedo e che la base da cui mi protendo e afferro il mondo”. Il senso di sentirsi vivo, è legato al cervello, la percezione del corpo rimane così secondaria. Un viaggio nella disabilità che arriva all’estraniazione, ma che non è comparabile, dice l’antropologo a quella che si può raggiungere in qualsiasi viaggio.Fermarsi, sentirsi straniero, genera un distanziamento da una cultura. Che ferma i pensieri e proietta in dimensioni che guardano al cambiamento sociale e individuale. Ogni cultura ha un suo proprio linguaggio. Liberarsi dai vincoli della cultura, per riconquistare un senso rispetto a chi siamo, dove siamo. E così il disabile trova la libertà nello spazio della mente e dell’immaginazione, in un insieme di riflessioni che ci lascia il silenzio del corpo.

1Byron J Good – Narrare la malattia lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente, Torino Einaudi 2006

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